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Enti pubblici e terzo settore, tra competizione e collaborazione

Il rapporto tra Enti pubblici e Terzo settore ha accompagnato, con accenti e posizioni diverse, il dibattito di questi anni. Due le principali visioni.

Da una parte, c’è chi considera queste relazioni simili a quelle di mercato, ritenendo che grazie alla competizione si possano garantire ai soggetti pubblici e dunque ai cittadini la disponibilità di servizi con il miglior rapporto qualità prezzo.

Un’altra visione considera invece riduttiva l’omologazione delle relazioni tra Enti pubblici e Terzo settore ai rapporti di mercato. I motivi possono essere molteplici. In alcuni casi, il fatto di voler intraprendere interventi sperimentali e innovativi – quindi in territori inesplorati – infatti, rende poco praticabile la via della gara d’appalto; questo è il caso delle istruttorie di coprogettazione della legge 328/2000. In altri casi sarebbe invece inappropriato parlare di acquisto di servizi perché il terzo settore realizza, almeno in parte, un certo intervento in modo autonomo e con proprie risorse; e la relazione con il soggetto pubblico, in questo caso non identificabile come un approvvigionamento di servizi, nasce dalla libera volontà di entrambi di integrare reciprocamente le proprie azioni per perseguire al meglio i propri obiettivi. Sono questi i casi, ad esempio, dei “patti di sussidiarietà” delineati dalla legge 42/0212 della Regione Liguria, ma anche, in termini diversi, dei patti di collaborazione scaturiti dai tanti Regolamenti per l’amministrazione condivisa approvati dai comuni in questi anni.

In questo scenario, il Codice del Terzo settore e in particolare l’articolo 55 è intervenuto inaugurando una nuova stagione di esperienze collaborative.

I nuovi strumenti giuridici offerti dalla riforma

Il Codice del Terzo settore apre una nuova stagione di riflessioni su questo tema definendo un insieme di soggetti che persegue l’interesse generale – il Terzo settore, appunto – iscritti ad uno specifico albo, partner di enti pubblici con i quali condividono il medesimo orientamento a perseguire l’interesse generale. Questa impostazione si colloca entro l’orizzonte tracciato dall’art. 118, quarto comma, della Costituzione che introduce il principio di sussidiarietà “orizzontale” come ordinatore delle relazioni tra corpi dello Stato e corpi sociali.

I due orientamenti – l’omologazione al mercato e la rivendicazione di una specificità del terzo settore – hanno dato vita ad una dialettica, di cui ancor oggi è difficile delineare il punto di assestamento finale.

SCEGLIERE LA STRADA GIUSTA: IL BIVIO TRA COMPETERE O COLLABORARE

Immaginiamo un bivio, che porta ad esiti diversi e a strumenti amministrativi conseguenti. Un pezzo di strada è comune: le relazioni fra PA ed Enti di Terzo Settore (Ets) sono ispirate ai principi di perseguimento dell’interesse pubblico, di efficacia, di trasparenza (e quindi evidenza pubblica), di parità di trattamento e, più in generale, di buon andamento della Pa, ai sensi dell’art. 97 della Costituzione. Ma di lì in avanti, si aprono due strade diverse e alternative rispetto a come enti pubblici e terzo settore possono relazionarsi.

Terzo settore e mercato: il paradigma competitivo

Se ci si muove nell’ottica dell’affidamento di servizi verso un fornitore e quindi di una competizione tra soggetti tra loro concorrenti e controinteressati rispetto alla pubblica amministrazione, la strada è sicuramente quella dell’affidamento attraverso una gara di appalto o concessione.

In questo caso la pubblica amministrazione acquista beni o servizi, dei quali ha definito le caratteristiche, dal migliore offerente sul mercato. L’esito dell’affidamento è un processo di selezione in cui i potenziali partecipanti sono concorrenti, uno dei quali risulta infine vincitore. Nel paradigma competitivo la pubblica amministrazione e il partecipante ad una gara che interloquiscano sulle caratteristiche del servizio generalmente – al di fuori delle ipotesi previste dal vigente Codice dei contratti (consultazioni preliminari di mercato, dialogo competitivo e procedure di partenariato pubblico-privato) – compiono un’attività di dubbia liceità. I riferimenti normativi che governano gli aspetti procedurali sono contenuti nel decreto legislativo 50/2016.

Costruire insieme gli interventi: il paradigma collaborativo

Se l’ambito è quello delle relazioni collaborative, gli stessi principi generali prima richiamati sono realizzati entro un procedimento amministrativo, governato dalla legge 241/1990, che include negli orientamenti delle politiche pubbliche le risorse del territorio; ciò significa dare vita ad un lavoro comune tra enti pubblici e enti di terzo settore per condividere la lettura dei bisogni, definire gli obiettivi, elaborare la programmazione degli interventi, individuare le risorse necessarie, per giungere quindi alla progettazione e infine alla realizzazione dei concreti interventi da attivare.

La pubblica amministrazione, quindi, riconosce e coordina le energie presenti sul territorio utili ad affrontare un determinato problema, eventualmente allocando anche a tale scopo delle risorse utili a potenziarle per raggiungere gli obiettivi condivisi prefissati.

L’esito – auspicabile – è l’integrazione e la ricombinazione innovativa delle risorse portate da più soggetti, pur senza escludere che, talora tale processo concertato fallisca, l’amministrazione riservi a sé la facoltà di selezionare alcuni partecipanti escludendone altri. In questa visione, è fondamentale e fondante il fatto che, nella massima trasparenza, pubblica amministrazione e soggetti della comunità locale discutano sui bisogni e sulle modalità di risposta.

I riferimenti normativi sono costituiti sul fronte delle procedure dalla legge 241/1990 e, nel merito, o dall’art. 55 del Codice del Terzo settore o, per le istruttorie di coprogettazione su servizi sperimentali e innovativi, il d.p.c.m. 30/3/2001 applicativo della 328/2000 e le leggi regionali che l’hanno recepita.

UN CAMBIO DI PROSPETTIVA

Ma, se quello sopra delineato rappresenta lo scenario generale, cosa sta avvenendo nella pratica? A questo proposito è bene evidenziare come in questi mesi siano in atto due fenomeni per nulla scontati.

Il primo è che cresce la volontà di coprogettare. Negli ultimi due anni il numero di territori che hanno iniziato ad utilizzare procedimenti di tipo collaborativo è aumentato come non mai. Grandi metropoli come Torino, Milano e Bologna e piccoli centri in diverse regioni italiane; esperienze storiche come Lecco e Bergamo ed enti locali che sino a quel momento non avevano mai utilizzato strumenti collaborativi. Perché sta avvenendo? Oltre all’influenza delle novità legislative, ci sono diverse motivazioni che riguardano soprattutto la valenza culturale e sociale di questi processi che spesso si verificano in assenza di elementi esterni come la convenienza fiscale, normativa, o di altro genere. Insomma, la co-progettazione non è scelta opportunisticamente come “scorciatoia” rispetto agli appalti, ma solo perché risponde in modo più adeguato ad alcune esigenze.

Il secondo è che questa stagione di collaborazione nasce spesso come frutto di un’iniziativa assunta o comunque fortemente voluta dalla pubblica amministrazione. È importante sottolinearlo perché il setting degli eventi di cui stiamo parlando non è quello – tipico forse di stagioni passate – in cui il terzo settore rivendicava a gran voce una maggior considerazione verso un ente pubblico riluttante; ma, più spesso, quello di un ente pubblico che constata l’impraticabilità di perseguire le proprie finalità di interesse generale laddove le relazioni sul territorio siano orientate da mercato, competizione, controinteresse.

TRE CRITERI PER COLLABORARE DAVVERO

Nel momento in cui la collaborazione si diffonde è utile provare a definire, al di là degli aspetti formali, quali siano gli elementi caratterizzanti della collaborazione. Proviamo ad individuarne tre.

1 – Condividere analisi e soluzioni. La lettura del bisogno, del contesto e la definizione delle modalità di intervento, non sono operati da un singolo soggetto (generalmente dalla pubblica amministrazione istituzionalmente responsabile), ma sono frutto di uno sforzo congiunto di più soggetti che si contaminano vicendevolmente con le proprie visioni e sensibilità.

2 – Senza soluzione di continuità, dalla coprogettazione alla gestione. Può succedere che, per un malinteso senso di trasparenza, si chieda un’ampia collaborazione per co-progettare, per poi mettere in gara i servizi frutto della coprogettazione. Si tratta di una prassi da evitare, in quanto il risultato in questi casi è generalmente il depotenziamento della co-progettazione, favorendo la destinazione delle risorse migliori al momento della competizione. Deve essere chiarito sin dal bando che coprogettazione e gestione sono parte di una medesima procedura.

3 – Integrare le risorse. Sarebbe opportuno che da questo processo non venga individuato un solo soggetto, ma si individui un insieme di proposte dalle quali partire per comporre un progetto in grado di integrarle. Ciò, beninteso, non in un’ottica conservativa – “spartitoria” (ognuno mantiene il suo), ma nell’ambito di uno sforzo di innovazione teso a meglio perseguire un interesse generale.

Una volta identificate le caratteristiche della collaborazione si tratto ora di individuare delle buone ragioni per collaborare; si esamineranno prima i rischi della competizione e poi i vantaggi della collaborazione.

I RISCHI DELLA CONCORRENZA

Alla prova dei fatti, la competizione spesso non ha portato con sé gli auspicati vantaggi in termini di risparmio economico, ma al contrario decadimento nella qualità delle prestazioni, peggioramento delle condizioni di lavoro, crowding out dei soggetti migliori (quelli attenti alla qualità e all’innovazione, spesso costose e non premiate dai meccanismi di gara) a vantaggio dei soggetti più spregiudicati, disinvestimento nei servizi (è improbabile investire se si ha la prospettiva di essere sostituiti in breve tempo da altri), distruzione di risorse sociali potenzialmente integrabili in un sistema di interventi ma sconfitte nella competizione, poca propensione a “fare sistema” (dal momento che le proprie risorse, capacità e relazioni sono un capitale “privato” da giocare nell’agone competitivo e non da mettere a disposizione di soggetti che risultano essere potenziali concorrenti), progressivo svilimento delle organizzazioni di terzo settore che tendono a mortificare la partecipazione alla programmazione e alla progettazione dei servizi concentrandosi sulla gestione.

PERCHÉ CONVIENE CO-PROGETTARE

Le migliori esperienze di amministrazione collaborativa indicano con chiarezza quali siano gli esiti positivi della “co-progettazione in azione”.

La collaborazione, oltre ad essere, come si è visto, coerente con la cultura dei servizi (il “lavoro di rete”, il “partenariato”, gli “interventi sistemici e integrati” sono termini, presenti in ogni progettazione, che chiaramente fanno riferimento ad un universo concettuale collaborativo) favorisce l’investimento e il conferimento di risorse per delineare al meglio il sistema degli interventi, somma le risorse migliori di ciascuno invece di mortificare tutte le competenze di soggetti diversi dall’unico vincitore di una competizione.

La collaborazione porta a innovazione: interventi prima non presenti – perché mai pensati o perché comunque improponibili in assenza di un’alleanza estesa – sono intrapresi.

La collaborazione porta a corresponsabilità sui servizi e sul reperimento delle risorse per realizzarli – economiche, di strumenti, di immobili – tra Ente pubblico e Terzo settore. Una impresa appaltatrice chiede di essere pagata per le prestazioni svolte, non è un soggetto con cui condividere e affrontare il problema della mancanza di risorse; un soggetto che abbia condiviso l’intero percorso può esserlo. E ciò significa, nella pratica, Enti pubblici e Terzo settore che investono insieme nella ricerca delle risorse necessarie, ad esempio impegnandosi nella progettazione europea o rivolgendosi insieme a delle fondazioni.

La collaborazione porta alla costruzione di capitale sociale, che è qualcosa di più di un servizio ben fatto: è un patrimonio di relazioni, legami, fiducia, magari sperimentate in un certo ambito, che risultano preziosi in una pluralità di altre situazioni.

La collaborazione porta ad una maggiore capacità e propensione a fare sistema, sia tra enti di terzo settore – ad esempio con collaborazioni strutturate tra cooperazione, associazionismo e volontariato – sia coinvolgendo soggetti diversi, dai comitati di cittadini alle imprese del territorio.

La collaborazione porta all’arricchimento e potenziamento degli interventi, grazie all’ampliamento delle risorse messe a sistema, con la possibilità di combinare e integrare aspetti diversi quali ad esempio welfare, lavoro, casa, relazione, ecc., superando in questo modo uno dei limiti spesso attribuiti agli interventi e consistente nella frammentazione e nell’incapacità di considerare i bisogni della persona nel suo complesso.

La collaborazione, infine, contribuisce anche a ritrovare il senso e l’entusiasmo del proprio lavoro. Chi lavora in settori di interesse generale, sia nell’ente pubblico che nel Terzo settore, non lo ha scelto per ritrovarsi oppresso dalla burocrazia o per diventare il crocevia di contenziosi; anzi considera (a ragione) tutto ciò come un insopportabile drenaggio di energie che vorrebbe dedicare ad altro, come elemento che mina il senso del suo lavoro, che lo allontana dall’investire tempo e capacità nel progettare e realizzare interventi a favore dei cittadini.

Avvertire che i propri sforzi hanno senso, che si è aperta la possibilità di essere protagonisti di una stagione innovativa e stimolate, è il punto di partenza per mobilitare energie e entusiasmo verso nuove esperienze collaborative.

fonte: https://cantiereterzosettore.it/

Il testo è un estratto dei materiali didattici messi a disposizione per il Modulo 8 del programma formativo nazionale Capacit’Azione su “Sussidiarietà e rapporti con la Pubblica amministrazione, co-programmazione, co-progettazione, forme di convenzionamento, accreditamento e affidamento dei servizi”

Silvia Gheza